Supersonic

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Ho amato gli Oasis.

Ne ho amato quel modo un po’ arrogante e sfacciato di porsi, il taglio di capelli, lo stile, gli omaggi ai grandi artisti inglesi del passato, la capacità di stupirmi che mi regalavano ogni volta che pescavo un pezzo nuovo dal loro canzoniere.

Ma soprattutto ne ho amato la musica. La musica degli Oasis è stata per me un concentrato e uno spaccato di vita e di situazioni. Dalla malinconia di Champagne Supernova alla carica di Supersonic all’euforia di Roll with it, le canzoni hanno caratterizzato in maniera indelebile molti momenti della mia vita. Il cd di What’s the story (Morning Glory) comprato a Monaco di Baviera e rubatomi a Copenaghen neanche tre giorni dopo, le scorribande estive nelle autostrade della riviera ligure a suon di Rock’n’roll star, il ritornello di Don’t go away, che si ripeteva incessante nelle orecchie e nella mente di un me molto più giovane che visitava l’Europa saltando da un treno all’altro.

Circa tre anni. E’ il tempo che ho amato alla follia questo folle gruppo inglese. Casualmente più o meno lo stesso arco temporale narrato in Supersonic, documentario prodotto dai fratelli Gallagher e disponibile nei cinema italiani per soli tre giorni. Il film, diretto da Mat Whitecross, non si discosta dal modello utilizzato dai predecessori del genere: filmati inediti, ritagli di giornale, foto sbiadite, testimonianze dei diretti interessati e di chi albergava loro intorno, aneddoti e filmati sospesi tra realtà e mitologia.

Tutto prende inizio da uno dei due concerti di Knebworth, nell’agosto del 1996. La band, attesa e osannata da 250000 persone sale sul palco lanciando grandi palloni da calcio sul pubblico, prima di abbandonarsi al marea umana, prima di dedicarsi alla gente, vero e proprio motore della carriera dei Gallagher. Il lungometraggio riavvolge il nastro e si perde in un flashback di quasi due ore che ripercorre tutte le ere geologiche attraversate. Dalla preistoria, quando Liam voleva diventare famoso e Noel girava il mondo come tecnico del suono/roadie degli Inspiral Carpets, fino alla vetta, a toccare il cielo con un dito chiedendosi “perché non toccarlo con tutta la mano?”.

Supersonic viaggia su questi binari principali per tutto il suo tragitto. La fame e la voglia di un gruppo di persone dalla difficile convivenza, incentrata sul dualismo dei fratelli Gallagher. Inutile sottolineare che sono loro il fulcro, il cuore, senza il quale nulla non sarebbe mai esistito. Il loro connubio artistico che fondeva il carisma da cantante e frontman di Liam al talento e alla capacità di scrittura di Noel ha fatto la storia della musica degli anni novanta. Il documentario verte costantentemente intorno a questo rapporto, a questa rivalità tanto aspra quanto ispiratrice, capace di far coesistere la voglia continua di prendersi a pugni, o a mazze da cricket in testa, e quella di arrivare in cima al mondo.
Riuscendo a fare entrambe le cose.

Ma ciò in cui meglio riesce Whitecross è la capacità di trasmettere le emozioni che gli Oasis hanno saputo creare. La rabbia schiumante, la ferocia aggressiva e spavalda, l’incoscienza e l’arroganza. La volontà, ribadita più volte in maniera esplicita dai diretti protagonisti, di prendersi tutto e subito. La sfrontatezza esasperata tipica dei giovani, a maggior ragione se belli, ricchi e potenti; senza mai nascondere nulla, senza celare i lati oscuri dietro il perbenismo inglese, senza dare in pasto ai fotografi un’immagine politicamente corretta da mettere in prima pagina. Nulla di tutto questo. Gli Oasis sono un misto di caos, esaltazione e fame. Fame di eccessi, di alcol e droga, di sregolatezza totale e follia allo stato puro. Talvolta appare addirittura smisurata l’immagine che viene dipinta, quasi come se si volesse esasperare ancora di più la vita sempre sopra le righe di una band che di regolare non aveva neanche il ritmo tenuto dal batterista. Tuttavia, tra fughe di Noel e sparizioni dal palco di Liam, ci si rende conto di come si sia voluta creare questa immagine eccessivamente fuori dagli schemi ma che i componenti sposavano e incarnavano alla perfezione. Chi non ne era capace veniva lasciato indietro, senza spazi per i piagnistei. O stai al passo o crolli.

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Non mancano, ovviamente, i filmati live. Cimelio storico è quello dell’esibizione a Glasgow, dove vengono scoperti, notati e scritturati da Alan McGee, produttore protagonista dell’ascesa repentina della band di Manchester. La velocità con cui tutto è accaduto è un altro elemento portante di tutto il film. Non è un caso che la trama tratti in maniera sommaria i primi anni di formazione della band e sorvoli totalmente tutto ciò che è accaduto dopo Knebworth. L’accento è posto con forza su quei tre anni che hanno stravolto tutto. Dalle sorti della famiglia Gallagher a quelle della musica mondiale moderna. Sono bastati poco più di mille giorni agli Oasis per cambiare ogni cosa. Tutto e subito, come nel loro stile.

Infine le canzoni. Le canzoni non possono essere un tema secondario. E infatti, seppur non evidenziate in maniera esplicita, seppur mai  in maniera netta in primo piano, sono l’unica costante, l’unico tema che Supersonic approfondisce in tutto il suo svolgersi. Ne viene sottolineato il processo creativo, la nascita, la genesi, talvolta repentina, casuale e istintiva, frutto di pensieri fugaci e quanto mai ispirati. Così come centrale è la potenza delle esibizioni live, spesso al di sopra della resa su disco. Un concerto degli Oasis a metà anni novanta era uno spettacolo scalmanato e spudorato, vibrante e intenso. Mai perfetto. Mai banale.

Ho amato gli Oasis per circa lo stesso periodo trattato in Supersonic. Li ho amati perché gli Oasis sono come gli anni in cui li ho vissuti. Impulsivi, feroci, sfrontati, vivi, sbagliati, arroganti.

Indimenticabili.

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